PAIDEIA
Lavorare con le famiglie portatrici di “handicap” psichico
(ovvero aiutare il malato psichico formando i suoi genitori ad amare se stessi)
CAP. 1.- INTRODUZIONE E DESCRIZIONE DEL PROGRAMMA
PRESENTAZIONE
PSICHE LOMBARDIA, Associazione di familiari e volontari per la salute mentale, opera ormai da anni a sostegno delle famiglie che sono coinvolte direttamente nel dramma del disagio psichico, e che spesso sono dimenticate e isolate nella loro più intima sofferenza. A tale fine, oltre a numerose altre iniziative, svolge opera di sensibilizzazione dell’opinione pubblica e di formazione e informazione dei familiari, attraverso corsi, incontri e pubblicazioni.
In quest’ultima attività Psiche Lombardia da tempo ha trovato un valido sostegno nella Fondazione Italo Zetti, cui già si deve la cura della collana di opuscoli “Incontri” e “Quaderni di divulgazione scientifica” destinati rispettivamente ai familiari e ai volontari in psichiatria. Ora, alla stessa Fondazione si deve la pubblicazione di questo volumetto intitolato PROGETTO PAIDEIA (dal greco “formazione”) che illustra l’omonimo “Programma Paideia – supporto familiare”, ideato e realizzato da PSICHE LOMBARDIA, e approvato e finanziato dalla Regione Lombardia in base alla legge 23/99.
Il Programma Paideia consiste fondamentalmente in un servizio di psicoterapia di gruppo per i familiari, che vivono al loro interno la malattia mentale; è seguito con molto interesse ed ha già dato evidenti e indiscutibili risultati.
Nel presente volume gli Autori, dr Gianni Bigo, psicologo e psicoterapeuta, e dr Patrizia Pascucci, psicologa, che conducono gli incontri del Programma Paideia, hanno raccolto le numerose tematiche approfondite durante le riunioni con i familiari e le riflessioni sulle loro problematiche quotidiane scaturite dal lavoro di psicoterapia di gruppo.
PSICHE LOMBARDIA è lieta di poter offrire ai familiari, spesso confusi e soli, uno strumento utile, e per così dire, una guida per un lavoro metodico e costante su se stessi, per non essere travolti dalla patologia, e per trovare una propria armonia.
La Presidente
ELENA ROCCA
Gli Autori
Gianni Bigo, veneziano di nascita, laureato in psicologia presso l’Università di Padova. Vive a Milano, dove esercita l’attività di psicoterapeuta. Studioso delle emozioni e della loro funzione nell’evoluzione dell’uomo sia come specie sia come individuo. Si interessa dei collegamenti tra il sistema emozionale e gli altri sistemi che presiedono il funzionamento della persona, oltre che degli influssi che i rapporti affettivi esercitano nella costruzione della personalità e nella vita quotidiana. Ha esperienza pluriennale nella conduzione di gruppi di psicoterapia e di adulti in formazione. E’ responsabile scientifico del Programma Paideia e conduce i gruppi di terapia collegati. Ha collaborato, come cultore della materia, con il Dipartimento di Psicologia dell’Università Cattolica di Milano e Piacenza. Fa parte del corpo insegnante della Scuola Europea di Ipnosi e Psicoterapia Ipnotica – A.M.I.S.I. Partecipa ai gruppi di formazione continua del Ruolo Terapeutico di Milano.
Patrizia Pascucci è psicologa e vive a Milano. E’ allieva dell’Istituto Europeo di Terapie Sistemico-Relazionali e collabora dal 2001 con Psiche Lombardia. Ha svolto attività di ricerca scientifica in collaborazione con il Dipartimento di Psicologia dell’Università Cattolica, interessandosi alla comunicazione cross-culturale delle emozioni e all’espressione vocale e non verbale nelle interazioni umane.
Associazione di familiari e volontari per la salute mentale
…..…. “Vieni con noi allora” gli disse Jonathan.
“Sollevati dal suolo assieme a me e cominciamo quando ti pare.”
“Non capisci. La mia ala…. Io non riesco a muoverla.”
“Maynard, tu sei libero di essere te stesso, questa è la libertà che hai,
adesso e qui, e nulla ti può essere di ostacolo….“
“Intendi dire che posso volare ?”
“Dico che tu sei libero.”
da Il Gabbiano Jonathan Livigstone di Richard Bach
Premessa
IL PROGRAMMA PAIDEIA
Il programma Paideia prende l’avvio da un’esperienza originale di Psiche Lombardia orientata a offrire un supporto psicologico ai familiari di malati psichici. Si è deciso di centrare gli sforzi del progetto Paideia sul familiare del malato psichico in seguito alla constatazione che, mentre l’ammalato psichico è considerato, a tutti gli effetti, un avente diritto di assistenza dalla pubblica sanità, i familiari, comunque confrontati quotidianamente dalle problematiche conseguenti alla patologia del loro caro, sono invece scarsamente considerati se non per gli aspetti inerenti ai comportamenti che essi “devono” mettere in atto per creare un ambiente accogliente al loro familiare ammalato. I rapporti con gli operatori sanitari, in qualche occasione, sono difficili perché i familiari, pressati dalla difficoltà di contenimento e gestione del comportamento del malato psichico, pressano, a loro volta, le istituzioni affinché ci sia una presa in carico “sociale” del loro congiunto. Gli operatori, al di là degli episodi di ricovero ospedaliero coatto conseguenti ad atti di violenza o intolleranza da parte del malato, insistono invece affinché la famiglia si prenda carico del proprio congiunto. Il desiderio dei sanitari, per certi versi condivisibile, sembra tenere in scarsa considerazione che, rispetto tale incombenza, i familiari sono in genere scarsamente preparati a livello sia pratico sia psicologico e del fatto che qualche volta l’ammalato psichico adulto possiede una prestanza fisica e una forza molto maggiori dei familiari che dovrebbero “contenere” i suoi comportamenti inadeguati o gli eventuali eccessi comportamentali.
Anche l’informazione, sia dal punto di vista teorico che pratico, è spesso contraddittoria e frammentaria e questo mette il familiare in difficili condizioni: da un lato di impotenza per l’incapacità di alleviare la sofferenza del congiunto con il timore anzi di aggravare i suoi sintomi e dall’altro lato con la paura di subirne violenze verbali e fisiche. Per questa ragione i familiari sono in qualche occasione considerati dagli operatori sanitari dei Centri di Salute Mentale come dei “rompiscatole” se non peggio.
A nostro parere invece il disagio e la sofferenza, presenti in questo lato del problema, sono quantitativamente e qualitativamente uguali, se non superiori, a quelli vissuti dal portatore di handicap psichico ed è da questa considerazione che ha preso avvio il nostro progetto e che guida il programma Paideia.
Impatto dell’Handicap psichico nella vita personale e sociale dei familiari
Le persone ricoprono ruoli differenti nei diversi ambiti in cui si articola la loro esistenza: la famiglia, il lavoro, il circolo, le istituzioni, l’ambiente sociale in generale. Anche nei rapporti tra singoli individui una stessa persona può ricoprire ruoli differenti. Nell’ambito familiare, ad esempio, un uomo può assumere il ruolo di coniuge, di genitore, di educatore, di sostegno; mentre a livello coniugale può ricoprire il ruolo di marito, di compagno, di amante, di amico, e, se si esercita la stessa professione, di collega, o di socio, quando si conducono attività in comune. Potremmo dire che l’IO personale, che ciascuno vive come unico, è invece rappresentato da una quantità di parti.
Ciascuna di queste parti è chiamata a rispondere ad obiettivi diversi in funzione del ruolo che ricopre nell’ambiente sociale. Vi sono inoltre aspetti e dimensioni interne alla persona che presentano propri bisogni ed attese che richiedono di essere soddisfatti. L’individuo opera in ciascuno di questi differenti ruoli assumendo di volta in volta la personalità di quel ruolo (come se si cambiasse d’abito o divenisse una persona differente) ottenendo successi ed insuccessi in relazione alle proprie capacità e competenze.
In situazioni normali, si trova il tempo ed i modi per ricoprire, più o meno adeguatamente, tutti i ruoli ed a rispondere a buona parte delle attese degli utenti (esterni ed interni). Di conseguenza si mantengono relazioni soddisfacenti con gli altri e con se stessi e si ha la percezione che la propria vita si svolga in armonia. E’ questa complessità che rende la vita più interessante ed è da questa complessità che l’individuo trae gioie e dolori ma anche uno stimolo ad evolversi ed a rendere sempre più ampia la propria personalità.
Si possono presentare, però, delle situazioni particolari, in cui ad esempio vi sia un figlio gravemente ammalato, e perciò particolarmente bisognoso di cure, d’attenzioni o di affetto. In quei momenti diventa difficile se non impossibile rispondere a tutte le richieste “dell’utenza interna ed esterna”. Tempo, cure, attenzioni sono riservate a chi si trova nella particolare condizione di bisogno. I genitori, ed eventualmente anche altri familiari coinvolti, dedicheranno gran parte del loro tempo e delle proprie risorse alla cura di quel figlio. Le relazioni con gli altri membri della famiglia e, spesso, anche molti bisogni personali, passano in secondo piano di fronte all’importanza e alla gravità dei bisogni del figlio ammalato.
Il più spesso delle volte queste situazioni hanno fortunatamente una durata limitata. Passata l’emergenza, i normali rapporti sono ristabiliti e le attenzioni sono nuovamente ridistribuite equamente. In alcuni casi però, se ad esempio un familiare è portatore di handicap fisico o psichico o diviene preda dell’alcool, della droga, o del gioco, l’emergenza si protrae nel tempo e la vita di relazione, individuale, familiare e sociale, permane squilibrata per lunghi periodi o addirittura per tutta la vita.
Qualche famiglia riesce a non farsi travolgere dalla situazione, a trovare una propria armonia ed una convivenza serena in cui i bisogni individuali e sociali di tutti i componenti la famiglia siano presi in considerazione se non proprio completamente soddisfatti. Può succedere, al contrario, che tutti i pensieri, tutte le attenzioni permangano centrate sulla persona “malata” e tutte le conversazioni siano centrate sul suo problema. Lentamente si arriva a pensare che la vita sia composta solo dal problema che si sta sperimentando; è possibile che siano prima disattese e, successivamente, eliminate le esigenze di molte sfaccettature della propria personalità, molti ruoli siano ricoperti in modo sempre meno soddisfacente fino ad essere completamente disattesi ed, alla fine, dimenticati. L’emergenza diviene normalità per quella persona e per quel nucleo familiare. Può succedere che a causa della mancanza d’attenzioni gli altri figli e il coniuge si sentano abbandonati, vi siano delle crisi nei rapporti interpersonali. E’ possibile che anche i propri bisogni personali siano frustrati e che si vivano tensioni e malesseri di cui non si capisce bene l’origine.
Per qualcuno questa può essere una condizione “quasi soddisfacente”; una condizione “meno peggio” che permette comunque di sopravvivere. Altri invece pensano che la vita possa essere anche differente, più piena, meno centrata sulla sofferenza e più sulla felicità e sta cercando nuovi spazi, nuove dimensioni di relazione con gli altri e con se stessi. Qualcuno invece ha già trovato e sta già sperimentando e, faticosamente, mettendo in discussione i modi di vita attuale.
Il Programma si rivolge a chi vive situazioni di questo tipo e non si è ancora stancato di cercare e di esplorare; a chi desidera scambiare le proprie esperienze, raccontare i tentativi che sta sperimentando, le soluzioni che ha scoperto; a chi desidera esprimere i propri dubbi ed incertezze o anche solo le proprie frustrazioni. Chi è confuso e non sa cosa fare ma sente che desidera una vita più ricca e più serena, chi sente che è il momento di fare qualcosa di concreto per sé, può partecipare al Programma Paideia che, avendo preso avvio sperimentalmente nell’anno 2001, si è ripetuto grazie anche ad un finanziamento della Regione Lombardia negli anni 2002 e 2003. Per il 2004 è previsto di continuare l’esperienza ed è stata richiesto alla Regione Lombardia di mantenere il sostegno fornito in precedenza.
Le riunioni si tengono presso la sede Milanese di Psiche Lombardia il giovedì dalle ore 17 alle ore 19 (salvo necessità specifiche che ne richiedano lo spostamento). La riunione vera e propria è generalmente preceduta da una pre-riunione di circa mezz’ora definita di “accoglienza” in cui i partecipanti possono disporre della consulenza di una psicologa per qualsiasi bisogno sia di tipo informativo generale sia riguardante la loro partecipazione alle riunioni stesse. Gli obiettivi e le regole che gli organizzatori si sono dato sono:
- Obiettivo generale del progetto: Offrire supporto psicologico personale, formativo e organizzativo ai familiari di portatori di handicap psichico
- Obiettivo specifico degli incontri: migliorare il benessere della persona, l’armonia nella coppia e della famiglia. La relazione che ciascuno instaura con gli altri è lo specchio della relazione che ha con se stesso. Migliorare il benessere e l’armonia dentro di sé, è la premessa indispensabile per relazioni più eque e rispettose verso il partner, il familiare, l’altro.
- Come: il partecipante s’impegna ad investire risorse (tempo, energie e capacità) per migliorare la conoscenza di se stesso e degli altri attraverso l’esperienza di gruppo. Molti teorici della psicologia sociale individuano nell’esperienza di gruppo, e nel “sapere” dei suoi partecipanti, l’elemento e l’energia che permette al singolo di trovare una risposta ai propri dubbi e problemi e molto spesso la forza per dare una svolta alla propria esistenza: “Un giorno la persona trova il coraggio di mostrare le proprie paure prima a se stesso e poi agli altri. In quel giorno egli inizia il viaggio che lo porterà a ritrovare il suo vero sé.”
PAIDEIA
Lavorare con le famiglie portatrici di “handicap” psichico
(ovvero aiutare il malato psichico formando i suoi genitori ad amare se stessi)
CAP. 2.- I TEMI AFFRONTATI DAL GRUPPO
Le tematiche emerse e trattate nel corso delle riunioni del gruppo Paideia evidenziano i disagi e le sofferenze, che pur riscontrabili anche in molte famiglie cosiddette ”normali”, trovano un terreno particolarmente fertile in quelle che hanno al loro interno un malato psichico:
1.- forte senso di impotenza dei genitori di fronte al disagio dei figli, accanto alla denuncia di isolamento.
Una delle sofferenze maggiori per i genitori (e familiari) di ammalati psichici è la percezione di non riuscire a dare loro aiuto. In questo tipo di problematica si evidenziano almeno due aspetti: Un primo aspetto si riferisce alla sensazione che sia necessario un cambiamento; il secondo riguarda il sentimento di impotenza che si genera dalla percezione di non essere in grado di fornire un valido aiuto nonostante tutti i propri sforzi.
Per quanto riguarda il primo aspetto occorre evidenziare che il familiare tende ad orientare tutti gli sforzi di cambiamento verso l’ammalato psichico e non verso se stesso. Questo fa si che i risultati siano ovviamente abbastanza miseri. Sempre più si evidenzia l’impossibilità di cambiare gli altri e quindi la necessità di focalizzare su di sé gli sforzi orientati a migliorare lo stile di vita proprio e della propria famiglia. L’obiettivo è di perseguire il proprio benessere malgrado il disagio vissuto dal proprio congiunto.
Si è convinti che la sofferenza ed il disagio dei genitori e degli altri congiunti non aiutino, anzi certamente ostacolano, l’acquisizione di comportamenti atti a risolvere le diverse situazioni problematiche che si incontrano nell’interazione con un ammalato psichico. Al contrario, una situazione di serenità e di benessere familiare, per quanto possibile, oltre a permettere una vita familiare migliore, offre anche una delle condizioni di base perché l’ammalato psichico possa raggiungere i propri obiettivi di miglioramento.
In questo senso c’è anche da considerare l’impostazione teorica della psicoterapeuta francese Maude Mannoni nel suo volume “il bambino ritardato e la madre” secondo la quale una delle ragioni fondamentali per cui il bambino che soffre di ritardo mentale non riesce a superare quelli che sembrano i limiti insuperabili imposti dal suo handicap deriva in parte dai genitori (ed in particolare dalla madre) che gli rispecchiano un sé handicappato. E’ probabile che una delle ragioni per cui un ammalato psichico non arriva a gestire (se non proprio ad uscire) dalla propria condizione sia proprio perché egli è trattato da handicappato. Si crede perciò che una delle vie di miglioramento (se non proprio di guarigione) del malato psichico consista proprio nel trattarlo come una persona potenzialmente “sana” in tutte le occasioni in cui questo sia possibile, cioè quasi sempre.
2.- L’indispensabilità di ricercare dentro di sé le soluzioni adatte ai problemi che ciascuno incontra, senza aspettarsi interventi “magici” dall’esterno. Questo permette di spostare il luogo di controllo della propria vita dall’esterno all’interno di sé e ad imparare a guardare in modo nuovo ai propri problemi
3.- E’ stata riconosciuta l’estrema difficoltà, ma anche la necessità di perseguire, e mantenere per quanto possibile, l’autonomia propria e altrui, quella degli ammalati psichici inclusa, nel tentativo di trovare un’equilibrata distanza interpersonale che consenta di avere un giusto spazio di vita propria. Questo permette di riconoscere uno spazio autonomo anche ai figli, evitando quindi di rinforzare le loro disabilità ma agevolando una loro progressiva assunzione di responsabilità. E’ stata affermata, a questo scopo, la necessità di agire primariamente su se stessi come prerequisito per sperare di modificare le relazioni con i propri familiari, essendo ogni relazione allo stesso tempo costruita e determinata dai partecipanti alla relazione stessa.
4.- E’ emerso anche il tema delle regole, che spesso i figli (ed in particolare gli ammalati psichici) tendono a disattendere, minando la stabilità e il funzionamento dell’intera famiglia. A tal proposito è stata posta in evidenza la necessità di stabilire e far rispettare delle norme comuni e, se necessario, la messa in atto di sanzioni. Ciò contribuisce non solo a governare la vita della famiglia, come di qualsiasi altra comunità, ma anche a fornire una forma di contenimento ai figli con disagio psichico. A questo scopo si rende anche necessario che i genitori sviluppino tra loro un altro livello di comunicazione e di complicità con l’obiettivo, oltre all’ovvia costruzione di una serena convivenza, anche la costruzione di un comune orientamento verso i figli per offrire loro un ambiente in cui potere mettere in discussione le norme senza diminuire il senso di sicurezza offerta da una famiglia unita.
5.- In occasione della restituzione del questionario Differential Emotional Scale forma II di Izard si è infine avuto modo di parlare di emozioni, della loro funzione e del loro significato. Si è preso atto che, in alcuni casi, è difficile accettare le proprie esperienze emotive ma anche di quanto lo sviluppo di una vita piena e armoniosa passi attraverso il riconoscimento e l’espressione del proprio mondo emozionale e come sia la repressione di quest’ultimo che impedisce di apprendere il modo di gestire e modulare delle risposte emozionali che siano adeguate alle circostanze.
PAIDEIA
Lavorare con le famiglie portatrici di “handicap” psichico
(ovvero aiutare il malato psichico formando i suoi genitori ad amare se stessi)
CAP. 3.- LA VITA CON IL MALATO PSICHICO: accudimento o schiavitù?
E’ stata posta la questione della dipendenza, che in certi casi sconfina quasi nella “schiavitù”, nei confronti del congiunto con disagio psichico.
Molti familiari desiderano riappropriarsi della propria vita, malgrado il gran numero di condizionamenti esterni in senso opposto. Non ultimo, tra questi condizionamenti, risulta il senso di colpa che qualcuno (conoscenti, parenti o conoscenti più o meno coinvolti nel problema) tende ad instillare nei genitori in relazione ai loro legittimi tentativi di perseguire una maggiore autonomia.
Il malato psichico, in genere, tende a ricercare un legame fusionale con i genitori e la sua reazione di fronte ai tentativi dei familiari per recuperare maggiore autonomia reciproca è estremamente negativa. I figli, e non solo quelli portatori di una malattia psichica, ricorrono spesso a forme di ricatto affettivo – morale, accusandoli di abbandono ed inducendo nei genitori forti sensi di colpa.
Mettere paura e/o colpevolizzare sono forme efficaci per instaurare il proprio potere sugli altri: i figli spaventano e colpevolizzano i genitori proprio per instaurare su di loro un potere in virtù del quale fare ed ottenere ciò che sembra rispondere ai loro bisogni e mantenere quella dipendenza reciproca che sembra indispensabile alla loro situazione.
Emerge come i genitori, spesso, si sentano in obbligo di correre in aiuto dei figli, per sopperire a difficoltà, percepite più o meno oggettive, reprimendo ogni volta la parte di sé che è stanca di ripetere le stesse dinamiche e che è cosciente dell’errore che continuano ad agire. I genitori sanno che continuando a risolvere i problemi al posto del figlio essi rispondono ad un suo supposto bisogno immediato ma ottengono anche il risultato di mantenerlo nella medesima situazione di dipendenza se non di handicap.
Una tale relazione, che induce un tipo di risposta non ragionata o mediata dai bisogni di dipendenza dei figli in generale, e del figlio portatore di handicap in particolare, è dannosa sia per i figli sia per i familiari. I primi non possono sperimentare e migliorare le proprie capacità nella soluzione dei problemi che incontrano, e sono quindi frustrati nel tentativo di aumentare la propria autonomia; i secondi, completamente assorbiti dal ruolo genitoriale nella cura di un figlio che non cresce mai, non possono dare spazio adeguato alle altre parti della propria personalità.
Si riconosce la necessità di interrompere i giochi familiari orientati a mantenere ed a sviluppare una relazione simbiotica in cui, in effetti, genitori e figli colludono per mantenere la reciproca dipendenza. Si evidenzia come spesso s’intraprenda una escalation collusiva che percorre stadi successivi di dipendenza e co-dipendenza che producono solo sofferenza. (parole della signora V sul reciproco rafforzamento della sofferenza tra lei ed il figlio)
Il risultato finale è il rapporto di amore – odio simile a quello che si instaura tra il dittatore e i suoi sudditi. Il dittatore afferma di non avere alternative e di essere costretto ad agire in senso dittatoriale a causa dell’incapacità dei propri sudditi. Il sentimento del dittatore nei confronti dei propri sudditi è complesso: contiene amore, un amore simbiotico, perché continua a ricoprire un ruolo che non vorrebbe solo perché necessario al loro benessere; di odio perché è costretto in questo ruolo dalla loro mancata crescita e dall’incapacità di governarsi. Vi è un profondo senso di disistima (disprezzo) per questi sudditi adulti che rimangono bambini per tutta la vita. (L che e accentra su di sé tutti i ruoli per una supposta incapacità del marito e dei figli).
Dalla parte dei sudditi “oppressi” la relazione si presenta uguale e simmetrica. Amano il dittatore giacché egli rappresenta la forza, che vorrebbero avere ma non hanno, di governare (se stessi); lo ammirano perché è la guida ed è capace di prendersi il potere (e le responsabilità) che essi vorrebbero ma che sentono di non essere in grado di gestire; lo amano perché la semplice gestione del potere (in qualsiasi modo guadagnato) suscita ammirazione e sentimenti positivi.
Lo odiano perché si vedono, da lui, impediti nella loro crescita verso una più ampia autonomia ed un maggiore sviluppo delle proprie potenzialità; lo odiano anche perché simboleggia l’immagine della loro impotenza di realizzare i propri desideri e anche perché è più comodo per loro scaricare sul “dittatore” tutte le responsabilità dello stato di insoddisfazione attuale.
L’ambivalenza li mantiene nella situazione di stallo. Ciascuno ha la ferma convinzione di essere chiuso in una gabbia a causa dell’altro. Il dittatore per impedire ai suoi sudditi di farsi del male con la propria incapacità e i sudditi convinti di essere costretti dallo strapotere del dittatore. Ed entrambi si lamentano delle ingiustizie patite e chiedono con forza all’altro di cambiare di essere lasciati liberi. Nessuno dei due si rende conto di essere invece inserito in un circuito negativo, entrambi lati della stessa medaglia; una medaglia che rimane tale finché uno dei due non trova la forza di sganciarsi dalla catena che lo tiene legato nella reciproca impotenza e lascia che l’altro “vada per la propria strada”. Un giorno i sudditi si stancano di chiedere la libertà al dittatore e si accorgono che continuando a chiedere ad altri la propria libertà si rimane, di fatto, schiavi. Si accorgono di “essere liberi”; e che questo, per quanto sia possibile, significa semplicemente andare per la propria strada senza chiedere il permesso ad altri.
Si è riflettuto sull’opportunità che i figli, da una certa età, seguano progressivamente una propria strada, sempre più autonoma dai genitori. Se tale spinta all’autonomia è frustrata, l’individuo continua a crescere ma solo in termini anagrafici.
Quello che si arresta è la costruzione di un sé autonomo. Si arresta la costruzione di una persona che ha e trova dentro di sé i propri obiettivi. Il risultato di questo genere di tragedie produce degli adulti che non sanno mai se sono stati “bravi o cattivi”; adulti che per trovare la propria strada anziché guardare ai propri bisogni e ai propri desideri guardano ad altri e chiedono loro cosa pensano e desiderano. Il distacco tra genitori e figli, per quanto doloroso, è opportuno che sia perseguito ed incentivato perché è sano e fisiologico. Non è in discussione la legittimità genitoriale di proteggere i figli; soprattutto quando essi sono piccoli. Ciò che risulta inappropriato è la rigidità di quel comportamento, la sua permanenza nel tempo e la sua reiterazione, a tutti i costi e indipendentemente dai risultati. E’ necessario che il processo educativo sia collegato all’evoluzione del bambino e alla sua crescita fisica e psicologica in modo che egli divenga sempre più capace di agire in maniera autonoma nell’ambiente che lo circonda. Che i suoi pensieri e le sue azioni siano progressivamente legate a percezioni e desideri personali piuttosto che a parametri e aspettative dei genitori.
La presenza di metodologie orientate a stimolare il naturale desiderio del bambino ad acquisire una progressiva autonomia, fisica e psicologica, (e la loro effettiva applicazione) è uno degli elementi più importanti per giudicare se un programma educativo sia veramente efficace.
Occorre perciò considerare l’opportunità che i genitori modifichino i comportamenti reattivi di risposta alle richieste d’aiuto del familiare anche se portatore di handicap. È infatti possibile che il “Malato” stia facendo una scelta di tipo economico e stia costituendo un’abitudine a considerarsi “impotente”. Un’alternativa interessante potrebbe essere quella di verificare che tutte le richieste d’aiuto del familiare portatore di handicap (fisico o psichico) siano conseguenti ad una effettiva impossibilità. Anche quando la richiesta d’aiuto risultasse giustificata si potrebbe considerare, in un’ottica orientata a promuovere l’autonomia, di fornire solo la quantità di aiuto indispensabile in quella situazione specifica.
Prendere delle eccessive misure protettive, infatti, non fa che confermare ed aggravare, nel tempo, l’handicap di una persona: occorrerà lasciare che l’altro possa sperimentare le proprie capacità, anche per progredire. Il tentativo di impedire a qualcuno di sbagliare vuol dire collocare questa persona in una gabbia d’impotenza. Consentire all’altro di sperimentarsi nel mondo vuol dire consentirgli di assumersi autonomamente degli oneri, cercando di adattare il più possibile il peso di tali oneri alle capacità di sostenerli.
Il solo modo di capire quale sia il peso sostenibile da ciascuno è proprio legato alla possibilità di provarsi e di non lasciare che un eventuale insuccesso sia di tipo definitivo. Non escludere cioè che quanto si è rivelato oggi superiore alle proprie forze sia possibile domani. Si tratta di una ricerca continua di superare i propri limiti definendo in ogni occasione cosa sia raggiungibile autonomamente e quanto sia l’eventuale aiuto di cui si ha bisogno. Quella che in partenza può essere considerata una cattiveria, un abbandono, si rivela un atto d’amore più alto ed un messaggio di stima e di fiducia sulle capacità e potenzialità dell’altro.
Questo, d’altra parte, richiede la gestione della paura, dell’ansia dei genitori che temono per i figli e vorrebbero evitare loro il dolore che potrebbe loro derivare dall’insuccesso conseguente ad un comportamento inadeguato. Questo comprensibile desiderio genitoriale tende a dare evidenza solo alla parte negativa dell’insuccesso. Non si considera come in moltissime occasioni siano proprio gli insuccessi ed il continuo risollevarsi e riprovare che temprano il carattere e permettono ai figli di affrontare più tardi le difficoltà di una vita adulta ed autonoma.
Alla luce di queste riflessioni, i partecipanti mettono in risalto l’estrema intensità con cui si esprime l’affetto che essi provano per i loro congiunti. Riconoscono però che tale amore contiene anche un aspetto per certi versi “soffocante”. Amore è, a volte, anche lasciare che l’altro possa camminare con le proprie gambe ed eventualmente commettere degli sbagli. Quando la spinta all’autorealizzazione, ossia alla realizzazione di tutte le proprie potenzialità, è regolarmente frustrata si crea un fortissimo disagio interiore con possibili effetti devastanti. Più i genitori tendono a proteggere i figli adulti, più questi ultimi si adagiano nella propria frustrante.
Una guida generale, alternativa alla tendenza genitoriale verso un’eccessiva protezione dei figli portatori di handicap e non, è quella di considerarli potenzialmente “sani” e non malati operando con loro come si interagisce con le persone capaci di individuare qual è il proprio bene e che provvedono alle proprie necessità. Sembra possibile, in questo modo, evitare di proteggere eccessivamente i figli, attribuendo loro inabilità e limiti che superano di gran lunga quelli reali. Ciò, infatti, non fa che cronicizzate ed acuire la loro dipendenza ed anche l’eventuale situazione di handicap. (episodio del bancomat del figlio di L e episodio di allontanamento da casa da parte dei genitori per un week end).
Una possibile alternativa tra la totale accondiscendenza ed il rifiuto potrebbe essere quella di “negoziare la quantità di aiuto”. Anziché cedere completamente alle richieste dei figli, il genitore negozia con loro comportamenti e modi di interazione che tengano conto oltre che dei bisogni dei figli anche dei bisogni e desideri dei genitori.
La tendenza di proteggere i figli, d’altra parte, nasconde un messaggio di sfiducia verso questi ultimi. Tale messaggio, peraltro, è involontariamente ma inevitabilmente trasmesso dai genitori e percepito dai figli, alimentando così l’impotenza e la dipendenza. Anche un atteggiamento prescrittivo e di controllo nei confronti delle scelte personali dei figli parte dal presupposto che essi non sappiano cosa è bene e cosa è male per loro e tende a mantenere la loro dipendenza.
Se ciò è comprensibile e necessario nei primi anni di vita del bambino, diviene sempre meno legittimo a mano a mano che i figli crescono. Con il procedere dell’età tale atteggiamento, e il linguaggio che lo accompagna, possono lasciare progressivamente spazio ad atteggiamenti e linguaggi che trasferiscano gradualmente ai figli la responsabilità delle scelte personali.
Anche i compiti del genitore si devono evolvere con il procedere dell’età dei figli passando da un ruolo di controllore e prescrittore di comportamenti ad una funzione di tipo più consulenziale e di suggeritore. Mantenendo invece un atteggiamento prescrittivo la dipendenza e passività dei figli aumenta ma si osserva anche un progressivo deterioramento dei rapporti. L’atteggiamento prescrittivo, piuttosto, potrebbe (o dovrebbe) emergere quando i figli adulti, che continuano a convivere nella casa dei genitori, si arrogano diritti e ruoli che non gli appartengono. Quello che occorre domandarsi riguarda invece quali siano le premesse necessarie nell’educazione di quel figlio; quali siano le capacità che permettano di affrontare le difficoltà ed i pericoli della vita senza esserne sopraffatto.
In merito all’argomento bisogno – dipendenza sono state esaminate anche sfaccettature diverse. Si riconosce che anche i genitori hanno “bisogno” dei figli e che, rifiutandosi di abbandonare un ruolo non più necessario, sono divenuti dipendenti da loro. Potrebbe quindi essere arrivato il momento di liberare i figli da questa contro dipendenza autorizzandoli a “non sacrificarsi più per i genitori”. Qualcuno dubita che questa formula possa applicarsi nel suo caso. Si fa notare, comunque, che dire una cosa simile ai figli non può far loro male. Può essere invece una manovra diversa da quelle finora applicate, e che non hanno portato a risultati positivi. E’ possibile che i figli in qualche modo abbiano sentito il desiderio/impulso di sacrificarsi per i genitori. Non si sta, infatti, parlando di una realtà oggettiva, ma di come potrebbero vederla i figli. Si può quindi ipotizzare che essi abbiano non solo quest’impressione, ma anche quella secondo cui i genitori, o la situazione, abbiano richiesto il loro sacrificio.
Nella relazione tra genitori e figli sembra che i poteri espressi consistano in un polo potente (il genitore) ed un polo debole o impotente (il figlio). Un’analisi più approfondita evidenzia invece la presenza e l’esercizio di due poteri complementari. Anche il figlio, attraverso la propria ipotetica (o agita) debolezza o incapacità, esercita sul genitore un potere reale. Un potere che utilizza la debolezza anziché la forza.
Riguardo al ruolo genitoriale si è riflettuto sulla necessità che esso soddisfi non solo i figli e le loro esigenze, ma anche i genitori stessi. La propria realizzazione personale, infatti, è fondamentale, e non si esaurisce nella genitorialità, né con essa coincide. Si riconosce che l’educazione ricevuta può aver trasmesso, al contrario, che la realizzazione personale di un individuo si esprime pienamente e si esaurisca nella sua paternità/maternità. Questa riflessione introduce il tema relativo agli insegnamenti ricevuti nei confronti dei quali ai partecipanti sembra impossibile prendere le distanze. Trovare una strada personale anche rispetto l’educazione ricevuta potrebbe essere una delle dimensioni da considerare nell’ipotesi della costruzione di un sé più adulto ed autonomo. Tutti gli insegnamenti andrebbero infatti verificati nella pratica e alla luce delle situazioni che la realtà ci presenta. Si è perciò convinti della necessità di recuperare quel tanto di sano egoismo (o di amore per se stesso) che consenta ad ognuno di considerare i ruoli che via via si ricoprono nelle differenti epoche della vita non più solo come dovere ma anche, e soprattutto, come strumento per la propria realizzazione per un esistenza orientata verso la gioia piuttosto che il sacrificio ed il dolore. Anche Silvia Veggetti Finzi, nel suo ultimo libro Parlar d’amore “l’amore unisce, l’odio divide: se non vogliamo che la madre (e il padre n.d.r.) tenga avvinto a sé il figlio per sempre, dobbiamo concedere che utilizzi una parte di “odio”, Anche gli animali, una volta cresciuti i cuccioli, li scacciano dalla tana”.
PAIDEIA
Lavorare con le famiglie portatrici di “handicap” psichico
(ovvero aiutare il malato psichico formando i suoi genitori ad amare se stessi)
CAP. 4.- RISPETTO DELLE REGOLE FAMILIARI E DISAGIO PSICHICO
Molte delle discussioni e dei conflitti familiari riferiti ed analizzati nel corso delle riunioni avevano come contenuto il mancato rispetto, da parte dei figli, di regole sociali generali o interne al nucleo familiare.
Ci si è chiesti quale sia il ruolo delle regole e quale il loro significato sia in ambito familiare che in generale nell’ambiente sociale allargato ed in particolare:
- fino a che punto sia giusto imporre delle regole,
- quanto l’esistenza di regole interne ed il loro rispetto da parte di tutti i componenti sia funzionale al buon andamento della famiglia;
- se valga la pena affrontare le discussioni ed i conflitti generati dal tentativo di farle rispettare
- quali le modalità ottimali attraverso cui definire tali norme all’interno della famiglia tenuto conto dei ruoli interni e della loro evoluzione nel tempo e delle funzioni educative che i genitori hanno nei confronti dei figli
- se il rapporto con le regole familiari (il continuo mancato rispetto o l’assoluto adeguamento ad esse) abbia qualche relazione con la nascita del disagio psicologico nella famiglia
- se vi siano correlazioni tra interazioni familiari malate ed il costituirsi della malattia psichica
- che la definizione di regole familiari non possa costituire uno strumento per trattare e superare il disagio psichico nella famiglia.
- Come sia più adeguato procedere dovendo come nel nostro caso, assoggettare a regole delle persone adulte e portatrici di handicap psichico
Nel corso della stesura di questo capitolo si è sentita la necessità di aggiornare le conoscenze circa il significato psicologico e pratico legato al concetto di regole (norme di comportamento) e al loro significato individuale e sociale; quali i modi con cui tali regole sono acquisite dalla persona nel corso dello sviluppo; come le regole concorrano a formare il “giudizio morale” ed il “comportamento morale” della persona.
Sulla base di tale riflessione si riconosce l’importanza di stabilire e fare rispettare da tutti delle norme all’interno della propria famiglia, come all’interno di qualsiasi altra comunità. Occorre anche prevedere limiti ed eventuali sanzioni, con fermezza e convinzione, pena la perdita di credibilità dei figli rispetto l’autorità genitoriali che governa (o dovrebbe governare) la vita familiare. Evidenziare che la vita familiare (oltre che la convivenza civile) è un insieme di doveri e diritti piuttosto che di soli diritti. In caso contrario si formerà in loro l’idea che la propria libertà sia infinita e non invece, come in qualsiasi comunità, che la libertà personale sia limitata dalla libertà dell’altro, dal rispetto della sua individualità e delle sue convinzioni.
Dando spazio alla logica di chi invece pensa alla libertà come ad un concetto senza limitazioni ogni regola diventa un ricatto ed ogni limitazione alla propria libertà un arbitrio intollerabile oltre che un limite da abbattere. Neanche la condizione di malato giustifica né autorizza a disattendere le regole di convivenza civile e di rispetto della propria e dell’altrui libertà. Questo nel tentativo di non offrire terreno di coltura alle inabilità del proprio congiunto, ma anzi di relazionarsi “con la sua parte sana”, fornendogli oltretutto una forma di contenimento
Nasce da questo il bisogno di definire un complesso di leggi e regolamenti cui rivolgersi in caso di dissenso sulla “imparzialità” di un determinata situazione. Se la convivenza civile non fosse scandita da regole, qualsiasi comportamento diverrebbe legittimo e la conseguenza sarebbe di farci ripiombare in una condizione di arbitrio e di prevaricazione in cui ciascuno costruisce le proprie regole in funzione degli interessi del momento.
La semplice comprensione delle regole non garantisce automaticamente che la persona adegui ad esse le proprie azioni alla norma stessa. Si capisce che tra la comprensione di una norma e l’adeguamento ad essa intervengono delle variabili relative agli interessi personali, ai sentimenti al tipo di educazione precedente, al coinvolgimento rispetto la norma stessa eccetera. Sembra comunque assodato che la comprensione (con – prensione = prendere con sé) di una norma possa essere una delle tappe fondamentali del suo rispetto. Da questo, e dal fatto che l’uomo sembra essere naturalmente orientato verso un comportamento libero, che mal si adegua ai limiti ed alla costrizione, sembra necessario collegare ad ogni regola delle “sanzioni” che hanno l’obiettivo, quando l’adeguamento alla regola non avviene volontariamente, di costringere l’individuo al suo rispetto.
All’interno di una sana dinamica familiare è necessario che ciascuno rispetti il proprio ruolo sia di genitore che di figlio. Il genitore rappresenta l’autorità e la necessità che la vita comune sia regolata da norme che tutti devono rispettare. Il figlio ha da una parte l’obbligo di riconoscere e rispettare tali regole e da un certo momento in avanti di partecipare alla loro definizione.
D’altra parte è naturale che il figlio desideri sottrarsi all’autorità genitoriale e si orienti verso un’esistenza “autonoma” con regole definite autonomamente.[1]
Il genitore fa rispettare le regole familiari e sebbene il figlio mostri spesso di non accettarle sappiamo che egli le desidera e ne ha bisogno.[2] La mancanza di regole lo farebbe sentire “perduto” in un mondo senza limiti. I figli, da parte loro, cercano continuamente di affermare il proprio potere nei confronti dei genitori. Una dei modi che utilizzano per verificare questo loro potere è appunto quello di disattendere le regole che i genitori hanno posto in ambito familiare. Crediamo che la battaglia per il potere tra figli e genitori sia qualcosa di fisiologico ed un passaggio obbligato verso l’autonomia reciproca. Sta ai genitori porre dei limiti ai figli e impedire loro di oltrepassare certi confini. Il figlio, cercando di “abbattere” le regole e discutendo, combattendo e negoziando con un genitore forte ma nello stesso tempo “cavalleresco” (che si fa rispettare ma nello stesso tempo rispetta profondamente il figlio) sperimenta e, in qualche modo, si fa le ossa per essere adeguato nella vita del mondo esterno e ad essere lui stesso adulto e, a suo tempo, genitore adeguato. Se il genitore assume un atteggiamento eccessivamente accettante verso il mancato rispetto delle regole familiari da parte del figlio, si eviteranno di certo tutta una serie di discussioni e conflitti ma d’altra parte il figlio si troverà in una condizione di vuoto di potere e non potrà sperimentare la propria determinazione, e l’importanza dei propri desideri. Inoltre, quando nella famiglia c’è un vuoto di potere è possibile che si esprima un potere alternativo a quello dei genitori, istituzionalmente delegati alla produzione del bene comune. È probabile che tale potere, illegittimo e necessariamente di parte, sia anche orientato a proteggere interessi e valori personali piuttosto che quelli generali della comunità familiare.
Né il mancato rispetto delle regole può essere giustificato dalla malattia. Occorre che anche il portatore di handicap sia confrontato dalla necessità del loro rispetto; sembra necessario che anche per lui il non rispetto delle norme sociali debba comportare delle sanzioni che saranno graduali in relazione alla regola non rispettata ed alla sua capacità di comprenderla. Questo nel tentativo di non valorizzare le inabilità del proprio congiunto, ma anzi di relazionarsi “con la sua parte sana”, fornendogli una forma di contenimento.
Emerge, tuttavia, la difficoltà di genitori nel mantenere fermezza rispetto alle regole: c’è, infatti, chi lamenta stanchezza e sfinimento, chi si lascia impietosire dalle incapacità, più o meno apparenti, dei figli. Si evidenzia che i figli perseverano nella disubbidienza perché è nella loro natura farlo e, più o meno inconsciamente, attuano una precisa strategia di combattimento che ha esattamente l’obiettivo di stancare e sfinire il genitore. Si sottolinea la necessità di perseguire tenacemente il rispetto delle norme che si ritengono di fondamentale importanza all’interno della famiglia anche in un’ottica educativa e morale che promuova un tipo di autorità legittimo e non prevaricante con cui il figlio possa cavallerescamente combattere ma cui egli possa fare riferimento nella costruzione di un sé adulto.
Comprensione e tolleranza nei rapporti interpersonali sono dei valori da perseguire sempre ma in modo pratico è possibile farlo come riferimento alle regole “minori”, che non risultano essere altrettanto indispensabili rispetto ad altre regole giudicate invece basilari per una serena convivenza quali ad esempio: il rispetto delle idee dell’altro e l’accettazione che egli possa esprimerle e sostenerle, non ubriacarsi, non essere maneschi o violenti, non introdurre in casa della droga e non farne uso. La compassione per gli insuccessi dei figli, anch’essa sempre giustificabile nel rapporto genitoriale, non trova la sua applicazione in occasione di mancato rispetto di regole importanti da parte dei figli. Il genitore può esprimere la parte di sé disposta a con-patire (patire assieme) le difficoltà dei figli senza però che questo permetta loro di disattendere le regole stesse e non faccia diminuire la determinazione perché il figlio accetti esplicitamente la loro esistenza nonché agisca un sincero tentativo di adeguarsi.
La difficoltà dei genitori nel perseguire e sostenere serenamente un percorso che agevoli l’autonomia dei figli è ricondotto al bisogno, spesso avvertito da ciascuno di noi, di voler essere sempre buoni. Tale bisogno spesso deriva da raccomandazioni genitoriali di tipo generale e non specifiche (fai il bravo oppure sii buono) che, proprio perché sono generali impediscono al bambino di controllare autonomamente la validità del proprio comportamento. Può essere inoltre che il bambino legga, la raccomandazione di “essere buono” in termini assoluti, e che ciò lo spinga a categorizzare come “buone” e quindi valide ed accettabili quelle parti di sé disponibili a identificarsi con il genitore e l’autorità e “cattive” e quindi inaccettabili (anche da se stesso) quelle parti di sé che invece lo spingono verso un pensiero ed un comportamento autonomo. Queste prescrizioni così banali e frequenti nel linguaggio genitoriali, se non definite in dettaglio e se lette dal bambino in termini assoluti, gli impediscono, inizialmente a livello conscio e successivamente, quando sarà ragazzo o adulto, in maniera inconscia, di accedere a strumenti autonomi per capire se è stato “bravo” ed a relegare come “non brava” e “non buona” quella parte della propria personalità che è invece naturalmente orientata a ricercare proprie norme di comportamento che trovino dentro di sé una propria giustificazione o la ragione di essere. Queste modalità educative fissano nel bambino un meccanismo che non gli permette un’analisi autonoma del comportamento e lo obbliga a rivolgersi di continuo ai genitori o all’autorità per essere rassicurato sulla propria condotta e per definire il comportamento altrui. La necessità perciò di definire in termini precisi cosa significhi “fare il bravo” (per es. alzarsi all’ora giusta, rassettare la propria camera ecc.) è una delle premesse indispensabili affinché il figlio possa essere autonomo nella percezione di un proprio comportamento adeguato non solo perché condiviso con l’autorità familiare ma anche in relazione alle regole oggettive sia imposte che liberamente concordate.
La elaborazione di regole familiari potrebbe essere un momento importante per segnalare il raggiungimento di una tappa della crescita ed agevolare il successivo sviluppo psicologico ed autonomo dei figli. Se ad un bambino piccolo sembra adeguato fornire un complesso di norme precostituite e derivanti dall’esperienza dei genitori sembra anche desiderabile che, con la sua crescita intellettuale e psicologica, si passi a norme la cui definizione ed i cui contenuti divengano progressivamente il risultato dell’interazione e coinvolgimento di tutti i componenti la famiglia. I figli siano cioè progressivamente invitati nella produzione delle regole familiari e dell’identificazione delle eventuali sanzioni collegate al non rispetto delle stesse. Tale esperienza, che inizialmente può avere dei contenuti anche banali, non è banale nella sua essenza poiché abitua il bambino alla pratica della collaborazione e a sperimentare un nuovo tipo di “potere” personale. Un potere diverso da quello espresso fino allora; non più solo nascosto ed ancorato a modalità di tipo manipolatorio (moine per farsi comprare i giocattoli) o di rifiuto (i capricci). Tale partecipazione gli permette di accedere ad una dimensione più adulta nella quale può esprimere un potere evidente, “legittimo” ed accettato e richiesto dagli adulti. Tale partecipazione, orientata alla produzione di “norme” per il buon andamento familiare, otterrà come risultato concreto di limitare il comportamento di tutti i componenti del nucleo familiare, e quindi non solo quello del bambino – ragazzo ma anche quello degli adulti ai quali egli aveva, fino a quel momento, dovuto esclusivamente obbedire.
Il malato vive una situazione di difficoltà. Tale condizione sembra essere costituita almeno da due elementi: un primo deriva dai sintomi specifici della malattia (essenzialmente fisici e fisiologici che si esprime nel malessere, nella febbre, o nelle differenti evidenze esterne) ed un secondo (essenzialmente psicologico) trova invece il suo fondamento nel fatto di non esser in grado di auto curarsi: definire la malattia, i suoi presupposti, definire un percorso “normale” della malattia stessa, quali siano i farmaci in grado di attenuare o mantenere i sintomi ad un livello non pericoloso ed eventualmente farlo guarire. Il malato, per ragioni culturali, si trova cioè nell’incapacità di curarsi da solo. È perciò divenuto usuale (e in qualche caso obbligatorio) affidarsi alle cure di persone (medici, psicologi o altre figure di aiuto) che attestino il suo stato di malato, si prendano cura di lui e “lo guariscano”. Tra malato e personale sanitario si crea una relazione che presenta certi gradi di libertà ma anche una serie di obbligazioni reciproche. Inoltre il malato acquisisce uno status che presenta alcuni diritti ma anche alcune obbligazioni specifiche. Tra le obbligazioni, soprattutto in caso di ricovero, c’è quella che gli impone di affidarsi in toto al sapere del personale sanitario preposto dalla struttura e di farsi curare secondo le modi che gli stessi considerano adeguate. Eventuali divergenze di vedute tra medico e paziente, o con i suoi familiari, sono fortemente avversate dal personale sanitario e portano a reazioni che arrivano fino all’espulsione dalla struttura sanitaria o alla ricusazione.
Tale affidamento è in genere praticato per tutte quelle malattie che presentano sintomi che il malato, o la pubblica sanità, considerano preoccupanti o pericolosi per la vita del malato stesso o per la salute sociale. Per molte altre malattie che presentano sintomi considerati più banali (raffreddore, cefalea, sovrappeso, ipercolesterolemia eccetera) permane l’abitudine di curarsi da soli utilizzando i cosiddetti “farmaci da banco”, fitoterapie, o altre terapie alternative che, solitamente, prevedono una gestione autonoma. Il malato provvede da solo alla soluzione dei propri problemi; egli, in effetti, si considera sano ed in grado di risolvere da solo la propria condizione patologica. Tale seconda modalità di gestione è avversato, spesso anche a ragione, dalle istituzioni sanitarie e dai medici stessi, ma, in questo caso la parte psicologica della difficoltà non si presenta.
La pressante richiesta e l’abitudine ad “affidarsi” alle cure di chi è in grado di curarlo fa si che il malato si venga a trovare in una situazione di regressione rispetto alla condizione adulta: diviene nuovamente bambino. La malattia psichica, in particolare, può, per le caratteristiche dei suoi sintomi, per l’effetto di quanto si diceva in precedenza e per le rappresentazioni sociali di timore e di distanza che essa fa sorgere nell’individuo, ottenere l’effetto di spingere il malato psichico e la famiglia di appartenenza in quella situazione di regressione rispetto lo sviluppo adulto. Sembra quasi che il malato psichico, e la sua famiglia, per potere acquisire l’attributo di malato ed usufruire delle cure predisposte dalla sanità pubblica debba necessariamente rinunciare ad alcune libertà ed autonomie. Rimane evidente che la persona è spinta (e spesso si adagia e collude con le istituzioni) verso livelli di sviluppo meno autonomi di quelli raggiunti in relazione alla propria età anagrafica e psicologica.
Questo riguarda tutto il complesso delle norme relazionali del malato con il mondo esterno ed anche il suo rapporto con le regole tende a regredire a livelli meno evoluti e più infantili. In questo caso sarà necessario che i genitori trovino i modi adeguati per spingere i figli verso una collaborazione che li porti a percorrere la strada evolutiva non ancora compiuta (oppure a rifare quella perduta a causa della malattia e delle costrizioni a cui essi sono stati, più o meno volontariamente, sottoposti).
Occorre anche considerare che sebbene latente nell’individuo adulto, ma regredito per malattia o per interesse, permane la coscienza della propria reale età anagrafica e qualsiasi atteggiamento didattico che non ne tenga conto è destinato al fallimento. Occorre perciò prendere in considerazione i principi dettati dall’andragogia (educazione degli adulti) piuttosto che quelli della pedagogia (educazione dei bambini).
Anche il concetto di “sanzione” conseguente al non rispetto delle regole va rivisto. La sanzione non dovrebbe essere arbitraria né decisa in modo estemporaneo dall’autorità familiare. Sembra necessario che, appena il livello evolutivo del figlio lo permette, si consideri la necessità di definire congiuntamente oltre le regole anche le sanzioni relative al loro mancato rispetto. In questo modo la “sanzione” sarà automatica al verificarsi di un comportamento non rispettoso della regola stessa. Decade così la necessità di una figura “giudicante” e delegata a comminare sanzioni. Tale responsabilità ricade su chi non rispetta la regola perché, mentre questi sceglie il mancato rispetto, sceglie anche automaticamente la sanzione correlata.
È sottolineata anche l’importanza di un accordo, di una condotta comune tra i coniugi rispetto le regole familiari. In caso contrario i figli troveranno il modo per insinuarsi tra la coppia ed accentuare quel conflitto che ha impedito la formulazione di una regola comune.
[1] E’ questo il processo che porta il figlio a trovare all’esterno della famiglia persone “altre” con cui condividere regole “altre” rispetto a quelle familiari. Questo processo di uscita dalla famiglia passa inizialmente attraverso la formazione di gruppi omogenei maschili (banda) e femminili (club) in cui sono sperimentati comportamenti e sentimenti autonomi che porteranno poi ad individuare un – una partner e a formare una propria famiglia.
[2] Il moderno pensiero educativo ha definitivamente abbandonato gli atteggiamenti di tipo permissivo “a tutti i costi” e si è orientato decisamente verso l’espressione di precisi “no” verso comportamenti del bambino che disattendono, senza valide ragioni, regole e norme sociali e familiari. Vedi la copiosa letteratura in tal senso: i no che aiutano a crescere, quando dire no, il no in amore eccetera
PAIDEIA
Lavorare con le famiglie portatrici di “handicap” psichico
(ovvero aiutare il malato psichico formando i suoi genitori ad amare se stessi)
Cap. 5.- LA SOLUZIONE DEI PROBLEMI – AFFIDAMENTO ED IMPOTENZA
Il familiare del malato psichico si trova comunque nella necessità di dovere fronteggiare tutta una serie di difficoltà legate alla malattia del proprio congiunto. Non si vuole qui entrare nelle obbligazioni di ruolo che le istituzioni sociali hanno o dovrebbero avere nei confronti della malattia psichica. Si vuole solo riconsiderare l’attitudine ad affidarsi ad altri nella soluzione dei propri problemi. Ricercare e possibilmente trovare, da sé, le soluzioni adatte alla propria particolare situazione, senza attendersi interventi magici e senza rimanere ancorati ai mancati aiuti che gli altri non vogliono o non sono in grado di dare, sembra essere una norma di comportamento che, mentre non esclude la possibilità di effettuare richieste precise verso le istituzioni socio sanitarie ed altri familiari, non impedisce di accettare quanto è offerto e, nello stesso tempo, di ricercare delle soluzioni autonome. Queste ultime essendo personali saranno sicuramente più adeguate alle proprie esigenze e capacità – risorse. L’effetto apparentemente secondario, ma in effetti forse ancora più importante, è quello di mantenere vivaci le proprie capacità intellettuali e di non regredire rispetto il livello di sviluppo raggiunto.
Le soluzione che gli altri ci propongono, utili magari in altre circostanze, non si adattano necessariamente alla propria situazione o non corrispondono ai propri desideri e alle proprie risorse.
A tal proposito il gruppo può risultare di grande aiuto: può rappresentare uno spazio in cui tornare a prendere contatto con i propri pensieri; essere una sorta di contenitore in cui elaborarli attraverso gli scambi comunicativi con gli altri, offrire l’occasione per individuare, insieme, possibili soluzioni alternative ai problemi incontrati. In questo caso la discussione di gruppo si presta ad essere un’occasione di “allenamento” e affinamento delle proprie capacità di problem solving: ciascun partecipante, infatti, pur attraverso lo spunto ed il confronto con gli altri, è incentivato a trovare una soluzione personale al proprio e problema.
Si considera che trovare da sé le soluzioni ai propri problemi oltre a permettere di esercitare e migliorare le proprie capacità di “problem solving” rivesta una importanza decisiva nel processo di cambiamento del ruolo che una persona riveste all’interno della propria situazione.
Si passa da un ruolo passivo ad un ruolo attivo e proattivo. Questa pratica migliora la stima di sé e contribuisce in modo notevole alla costruzione di un IO più solido e cosciente. In questo caso il contenitore (il fatto di mettersi a cercare) è più importante del contenuto (la soluzione elaborata) perché permette di sperimentare le proprie capacità e le proprie “potenze” in una situazione vissuta fino a quel momento, in condizioni di quasi completa impotenza. La sensazione di impotenza (accompagnate a rabbia e frustrazione) è infatti uno dei sintomi maggiormente riscontrabile nelle situazioni sperimentate dai familiari degli ammalati psichici. Tale sintomo causa effetti distruttivi per la personalità ed è, potenzialmente, apportatore di patologia.
Si sono individuate alcuni comportamenti che possono agevolare la realizzazione di una condizione di relativo benessere malgrado certe esperienze negative di vita:
- non arrendersi di provare a superare queste ultime ma liberarsi dei “fardelli emotivi” ad esse connessi che impediscono di vedere il mondo con altri occhi.
- concentrare sul presente le proprie energie e per realizzare un certo distacco dagli episodi dolorosi del passato, senza doverli cancellare, ma accettandoli anziché rifiutarli;
- riconoscere i propri meriti e non solo le responsabilità e le eventuali colpe.
Si è anche riflettuto sulla necessità di non imporre le proprie soluzioni agli altri, intendendo con “altri” anche i propri figli.
È sottolineata, inoltre, la necessità di riconoscere ed accettare i propri limiti, le proprie debolezze, soprattutto se si vive un periodo di particolare vulnerabilità evitando anche di perseguire obiettivi irraggiungibili. Sono ad esempio, per definizione, irraggiungibili tutti quegli obiettivi orientati a cambiare gli altri. L’altro cambierà solo quando deciderà di farlo personalmente. In questo caso è più che mai indispensabile focalizzare su di sé le proprie energie e cure, allo scopo di recuperare le forze ed uscire dallo stato di crisi.
Non è opportuno negare la difficoltà di compiere certe scelte ed il dolore che esse comportano; quest’ultimo può essere più facilmente accettato se si tiene presente che il senso che esso riveste è quello di recuperare il controllo della propria vita e di indurre il proprio familiare sofferente a fare altrettanto, nell’ottica di promuovere l’autonomia di entrambi e di riprendere pieno possesso delle proprie esistenze.
Quando la strada per il benessere implica una certa sofferenza può essere necessario che, per giungere al proprio scopo, accettare di viverla: il dolore può rappresentare il prezzo da pagare per la propria guarigione. La naturale tendenza umana di fuggire dalle condizioni dolorose diviene in questo ed in altri casi (quali ad esempio gli attacchi di panico) un impedimento che è necessario superare per imboccare il sentiero che porta verso una vita più evoluta. Sembra comunque adeguato che si viva solo la sofferenza necessaria, e non più di quella. É come quando dopo una lunga nuotata le forze vengono meno e si sente la necessità di abbandonarsi. Anziché resistere e affannarsi a rimanere a galla a tutti i costi potrebbe essere più conveniente prendere una grande boccata d’aria e lasciarsi andare a fondo. Anzi, fare in modo che la discesa sia la più veloce possibile, così da toccare al più presto il fondo e trarre da esso la spinta necessaria per risalire.
Non ci sentiamo però di recriminare su coloro che scelgono di non percorrere tale via. Tale scelta è ampiamente giustificata dalla difficoltà del compito: non si è certi che la nuova condizione, non ancora sperimentata, rappresenti un miglioramento rispetto l’attuale. Mentre si sa di riuscire a sopravvivere nella situazione presente non si sa quanto sia lunga la strada da percorrere né quanto si dovrà soffrire, né tantomeno cosa ci aspetti alla fine del nuovo sentiero.
Quando la sofferenza diviene insopportabile può essere utile rifugiarsi consapevolmente, in qualche fantasia o comunque di prendere le distanze da tale dolore. Anche se tuttavia, prima o poi, sembra opportuno che questo dolore sia fatto emergere ed affrontato può essere opportuno che questa eventualità sia rimandata a momenti successivi quando la persona sarà in condizioni migliori per poterlo superare.
Di fronte ai forti sensi di colpa, così come a ricordi estremamente dolorosi, può anche essere utile si ricorrere ad una tecnica comportamentale detta “stop del pensiero” che ha l’obiettivo di impedire inutili rimuginazioni. L’utilizzo ragionato di questa tecnica permette al pensiero di non soffermarsi a rimuginare problemi che al momento attuale non sono risolvibili o su altri elementi della realtà (effettiva o immaginata) evitando così di procurarsi inutili sofferenze. Infatti la sofferenza ha senso solo quando essa si rivela indispensabile per raggiungere maggiori livelli di sviluppo. Il nodo problematico potrà essere affrontato in un momento successivo, quando si sia acquisita una maggiore forza. Il dolore, infatti, va fronteggiato e vissuto se e quando sussiste la possibilità di superarlo.
Si può anche ipotizzare che, in qualche caso, il mantenimento della situazione attualmente vissuta sia agevolato da un desiderio di dipendenza che impedisce di perseguire in modo autonomo il proprio benessere. Si riconosce la difficoltà di intraprendere questo percorso, in particolare la difficoltà a decidere di rinunciare a qualcosa che, sebbene ci blocchi, tutto sommato dà un tornaconto e fa comodo. Quello che sembra comunque auspicabile è che ciascuno possa effettivamente scegliere e, se possibile, possa e voglia assumersi la piena responsabilità delle proprie scelte. Tale manifestazione di autonomia e libertà diviene comunque uno strumento di crescita e contribuisce ad aumentare la fiducia in se stessi.
E’ inutile recriminare sugli sbagli commessi in passato. Le “ricadute”, la ripetizione di vecchi errori non riportano al punto di partenza, ma ad una condizione progressivamente più distante rispetto quella iniziale. La nuova consapevolezza permette di vedere nuove alternative da praticare in futuro. La riflessione sui comportamenti agiti in precedenza può essere utile se l’obiettivo è di affrontare le situazioni simili che dovessero riproporsi nel futuro con comportamenti nuovi, diversi. La capacità di adattarsi alle diverse situazioni, di limitare le proprie rigidità in certe occasioni e di mantenerle in altre, infatti, coincide con il concetto di fitness e rappresenta un aspetto dell’intelligenza. Il comportamento più appropriato non può essere definito una volta per tutte, ma valutato volta per volta, secondo le circostanze e degli obiettivi che si vogliono perseguire.
Spesso la soluzione data ad un determinato dilemma diviene essa stessa il problema proprio perché si vorrebbe che quella scelta avesse una validità generale. Avendo individuato un modo adeguato di comportarsi in una certa situazione, si tenta poi di riproporre la medesima soluzione in tutte le circostanze problematiche. Sembrerebbe invece più efficace potere scegliere con flessibilità quale comportamento agire. Spesso però non si è nemmeno consapevoli di stare scegliendo talmente siamo avvolti in un complesso di preconcetti e di “decisioni già prese” indipendentemente dalla situazione. Tale comportamento sarebbero più facile da individuare se si fosse consapevoli che una scelta è quasi sempre possibile e se non si fosse così affezionati ad un sé costruito una volta per tutte e che tentiamo a forza di adeguare a tutte le situazioni. Si tratterebbe di acquisire inizialmente la sensibilità verso le situazioni e successivamente di sviluppare una competenza adeguata che permetta di inserire e mantenere uno spazio di pensiero, un momento di decisione, tra istinto ed azione per valutare se l’azione, che l’istinto propone, sia efficace o meno per gli obiettivi che si perseguono.
Occorre considerare anche il rapporto con i propri limiti che è, generalmente, molto istintivo. Spesso si percepiscono limiti inesistenti, o si dà carattere cronico a limitazioni esclusivamente legati ad situazioni di impotenza temporanea o situazionale (come ad esempio negli attacchi di panico) oppure, al contrario ci si pone obiettivi totalmente irrazionali ed irraggiungibili (quale ad esempio quelli orientati a fare cambiare gli altri).
Gestione delle manifestazioni di violenza del figlio di handicap psichico
Sulla base del racconto di un’esperienza personale è emersa la difficoltà di gestione, da parte dei familiari, delle manifestazioni violente dei figli. E’ stata espressa la profonda incertezza sul comportamento da tenere in questi casi, e sul tipo di provvedimenti da prendere.
Nell’ottica di trattare il proprio familiare nel modo più normale possibile, è stata evidenziata l’importanza di non lasciare passare inosservati tali comportamenti aggressivi, ma di considerare delle possibili reazioni che possano costituire, per i figli, dei deterrenti rispetto all’eventualità di ulteriori esplosioni aggressive.
Se è vero, infatti, che non è possibile obbligare i propri congiunti a perseguire delle strade da loro rifiutate (quali, ad esempio, l’assunzione di farmaci o l’inserimento in comunità), è altrettanto vero che si possono ipotizzare, e attuare, delle soluzioni alternative, tese primariamente a tutelare se stessi, ma che, nel medesimo tempo, mettano il familiare nella condizione di assumersi la responsabilità della propria salute e della propria vita, non lasciandogli la possibilità di perpetuare i propri comportamenti disadattivi scaricando sui genitori la rabbia conseguente alle proprie frustrazioni.
Dall’altra parte i genitori possono sviluppare la propria sensibilità per riuscire a non indulgere ulteriormente in comportamenti che ingabbiano dei figli, anagraficamente adulti, in condizioni di doppio legame che impediscano loro di effettuare scelte personali oppure, sopperendo completamente ai loro bisogni, li mantengano in condizioni infantili di dipendenza.
Anche la velleitaria modalità in cui il genitore reitera all’infinito raccomandazioni, prescrizioni o agisce comportamenti ricattatori, anche se con il fine di influire positivamente sul comportamento del figlio, si è rivelata alla fine inutile o negativa.
Le osservazioni più recenti hanno reso evidente che risulta molto più efficace l’atteggiamento di chi, avendo riflettuto criticamente sulla propria posizione dopo avere dichiarato le proprie convinzioni e desideri, anziché tentare di convincere l’altro dell’adeguatezza degli stessi si risolva infine di metterli in pratica.
E’ importante evitare esagerazioni ed inutili atteggiamenti provocatori ma, nello stesso tempo, evitare anche le incertezze che portino a deflettere dalla propria convinzione; ma anche senza attendersi che il proprio interlocutore lo segua. In questo modo, attraverso la dimostrazione della propria determinazione egli chiede implicitamente all’altro, senza chiederglielo, di adeguarsi ad una richiesta di cui entrambi riconoscono, anche se non esplicitamente, il fondamento.
Una volta che il comportamento sia stato messo in atto risulta estremamente negativa una eventuale posizione dell’altro coniuge che, anche se con qualche fondamento, agisca al fine di sminuire o rendere meno decisa la posizione e la fermezza del coniuge che agisce.
I genitori, hanno difficoltà ad accettare l’ostilità ed il risentimento dei propri figli e per questo non riescono ad agire comportamenti che non colludano ulteriormente con le loro modalità di relazione ricattatorie. È riconosciuta, tuttavia, la necessità di prendere le distanze da questi schemi distorti di relazione. Permangono tuttavia forti preoccupazioni per gesti estremi che i figli potrebbero compiere come risposta a tale eventualità. E’ comunque importante che i familiari si sottraggano ai giochi relazionali malati dei propri figli con disturbi psichici (mettendoli quindi in maniera implicita di fronte alle proprie responsabilità). Una particolare attenzione sembra invece da riservare nel momento del miglioramento. Quando cioè i figli stessi prendono coscienza della propria condizione e diventando consapevoli del proprio modo distorto di relazionarsi incominciano anche a scontrarsi con le difficoltà ad apportare, concretamente nella propria vita attuale, quei necessari cambiamenti che permettano un progressivo ampliamento della loro esistenza e della loro autonomia.