L’aria del carcere mi sa sempre di sconfitta. Di vite non vissute. Uomini e donne che si sono messi in pausa, tante vite in attesa. Proprio come il titolo dell’ultimo libro che Silvia ha scritto. Oggi però parla di luce dalle crepe a persone che vivono in un’attesa, più o meno lunga, di cui non sanno cosa farsene, che non sanno come significare. Penso che qui dentro di luce ne passi molto poca. Forse è per questo che si chiama gattabuia. Il carcere ha l’odore e non solo il sapore di sconfitta.
Pasquale domanda perché il maschile del romanzo viene presentato così negativamente. Mi chiedo se questa domanda non parli di lui. Armando è in realtà la persona che consente alla protagonista di entrare in contatto con delle parti di sé, fino ad allora restate nell’ombra, inespresse e sacrificate. È grazie ad un uomo, dunque, se Cecilia riesce ad emanciparsi proprio da quel maschile che l’aveva, fino a quel momento, imprigionata. Mi domando se anche Pasquale stia vivendo in una prigione interiore, oltre che fisica, e se anche lui non stia aspettando un Armando che lo liberi.
Sento una voce che mi arriva da dietro le spalle, come un agguato. Però il suono non mi spaventa. E’ dolce, acuto ed emozionato. Mi immagino che possa appartenere ad un uomo stanco, fragile e sensibile. Ermand mi ricorda Armando e non solo per il nome. Armando in comunità è un paziente considerato minaccioso, pericoloso ma non per Cecilia che ha il coraggio di avvicinarsi alla sua fragilità. Mi volto ma non guardo Ermand. Guardo le facce degli operatori che convivono con lui, con Pasquale e con gli altri detenuti. Penso che, come Cecilia, siano un po’ dei rivoluzionari. Perchè è rivoluzionario, ogni giorno, cercare di portare, da fuori, un po’ di luce dentro al buio delle celle e delle persone che quelle celle le abitano. Come Ermand che decido soltanto di immaginare. Non so quale sia il suo aspetto. Non è stato importante per me vederlo, l’ho sentito.
Edoardo è un bel ragazzo. Più che domandare si mostra. Penso a cosa l’abbia portato a mettere in pausa la sua vita. Inconsapevolmente mi risponde affermando come sia difficile farsi toccare dagli altri, far entrare il fuori, dentro. Chi sta fuori se ne frega di ciò che accade dentro il carcere (o dentro una comunità terapeutica), dice. Mi chiedo se il dentro di cui parla Edoardo non sia la sua sofferenza che sembra così difficile da mostrare, da avvicinare. Nascosta dietro un agito e un’ostentata sicurezza. E se quella rabbia verso il fuori non sia rivolta a qualcuno che fuori ci vive ma non si è mai interessato al suo di dentro? Cecilia tocca la sofferenza di Armando perché lui glielo permette. Decide di non nasconderla più. Cecilia inizia a vedere per la prima volta ciò che prima non vedeva perché si fa toccare dalla sofferenza di Armando. Se avessimo il coraggio di mostrarci, di far entrare dentro ciò che sta fuori, di far entrare un po’ di luce, forse tutto ci sembrerebbe meno buio. Nel buio ci si nasconde facilmente ma è alla luce che si vive. E sono le crepe che permettono alla luce di entrare, così come la crisi (un reato, la malattia mentale) può permettere un cambiamento. Una crepa può mettere in attesa una vita, una crepa può rendere una vita degna di essere vissuta. Per non restare in attesa però, bisogna essere un po’ dei rivoluzionari. Mostrarsi, avvicinarsi e farsi avvicinare, occuparsi delle proprie fragilità.
Ora l’aria del carcere mi sa di rivoluzione.
Sara Carloni